Il suo nome dice tanto, forse tutto, anche a chi non conosce la sua storia: John Brown, lo statunitense particolarmente attivo per sostenere la causa dell’abolizionismo e dei pari diritti agli uomini di colore, viene impiccato il 2 dicembre 1859 a Charles Town in Virginia.
Idea giusta la sua, quella dell’abolizione della schiavitù, ma cerca di arrivare al risultato con metodi decisamente sbagliati. La sua convinzione personale, infatti, è che si possa ottenere un vero cambiamento soltanto con l’insurrezione armata.
Ed è proprio con con le armi che, verso il 1855, si fa conoscere durante il periodo del Bleeding Kansas, ovvero di quella situazione di tensione e di violenza che ha tenuto banco nel Kansas e nel Missouri. Appoggia le idee del movimento abolizionista, ma il pacifismo e le parole secondo lui non porteranno da nessuna parte.
Con questa convinzione nel 1856 risponde al saccheggio di Lawrence uccidendo cinque coloni. Poi, nello stesso anno, guida gli insurrezionisti nella battaglia di Black Jack e in quella di Osawatomie.
Fatale per lui è l’attacco all’arsenale di Harpers Ferry, in Virginia, dove vuole procurarsi tutte le armi per proseguire la sua battaglia ideologica. Nel raid muoiono dieci persone, altre rimangono ferite. Lui, rinchiuso lì dentro e ormai sotto assedio, viene catturato e processato. La sentenza è chiara e inappellabile: tradimento contro il Commonwealth della Virginia, responsabile dell’uccisione di cinque persone e dell’incitamento alla rivolta da parte degli schiavi locali. Per lui è stabilita l’impiccagione.
Il suo sacrificio, secondo molti, non è stato inutile. Molti rivedono nelle sue gesta l’inizio della secessione del sud e della guerra tra nordisti e sudisti. In battaglia, come inno, le truppe della Union Army cantano la popolare canzone “John Brown’s body” che tutti conosciamo.
Il personaggio, però, negli anni ha diviso gli storici. Per molti è un vero e proprio eroe da ricordare e glorificare, per altri soltanto un pazzo sanguinario che ha agito al di fuori della legge.